La Procura di Parma si è opposta al riconoscimento genitoriale di un bimbo da parte di una donna unita civilmente alla madre biologica del minore. A farlo sapere in una nota lo stesso procuratore capo Alfonso D’Avino.
La vicenda riguarda una procedura avviata davanti al Tribunale di Parma dall’avvocato della coppia di donne al fine di ottenere l’annullamento del rifiuto dell’ufficiale di Stato civile del Comune di Fidenza al riconoscimento del piccolo.
Il procuratore si è opposto alla richiesta «evidenziando che essa non sarebbe prevista dal nostro ordinamento giuridico, per cui – allo stato dell’attuale legislazione – il riconoscimento del figlio di una donna, da parte di una persona dello stesso sesso (sia essa convivente o unita civilmente alla madre del bambino), sarebbe vietata».
Il bambino, concepito con la tecnica della procreazione medicalmente assistita, è nato in Italia ed è stato riconosciuto dalla madre con regolare dichiarazione di nascita all’ufficio di Stato civile. Poi la compagna della donna, con il suo consenso, si è rivolta al Comune, chiedendo di effettuare il «riconoscimento successivo» come seconda madre e di aggiungere il proprio cognome al bambino. La richiesta però è stata respinta, «evidenziando come la normativa vigente non consenta il riconoscimento di figli da parte di coppie omosessuali». Contro tale provvedimento il difensore della coppia ha presentato ricorso al Tribunale, sottolineando che, in altre situazioni, il riconoscimento era stato consentito. Il Tribunale si è riservato di decidere.
«La vicenda si inserisce nell’ambito del delicato problema della possibilità che un bambino venga riconosciuto come figlio di una coppia omosessuale – ha dichiarato D’Avino – possibilità che, nell’ordinamento italiano, ad oggi nessuna norma consente o prevede». In considerazione del fatto che la richiesta di riconoscimento, rigettata dall’autorità amministrativa, è stata poi rivolta all’autorità giudiziaria, il procuratore ha evocato «il fondamentale principio della separazione dei poteri» con il richiamo alla distinzione tra il potere legislativo e quello giudiziario.
Inoltre, secondo la Procura, non potrebbe valere il richiamo alla legge 76/2016 su le unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina delle convivenze di fatto (la cosiddetta legge Cirinnà). A questo proposito, infatti, il procuratore ha evidenziato che «trattandosi di una legge recente (del 2016) che ha introdotto le unioni civili, se il legislatore avesse voluto, avrebbe legiferato anche in materia di filiazione; non lo ha fatto, per cui il giudice non può – a parere dell’ufficio requirente – intervenire lì dove il titolare del potere legislativo (ovvero il Parlamento) non ha inteso intervenire».
Tra le considerazioni che la difesa della coppia ha portato dinnanzi al Tribunale per chiedere l’annullamento del provvedimento, figura anche il «superiore interesse del minore». Su questo punto «dopo aver evidenziato l’assoluta condivisibilità di tale principio», il procuratore ha osservato come “tale concetto non possa essere piegato al punto tale da far ritenere (come qualche provvedimento giudiziario ha motivato) che esso verrebbe irrimediabilmente leso se non si consentisse il riconoscimento da parte della seconda madre».
L’Avvocatura dello Stato, intervenuta nel giudizio, ha eccepito l’incompetenza del Tribunale di Parma «e, comunque, ha chiesto il rigetto della istanza della difesa».