Dopo aver letto per giorni su alcune testate nazionali farneticazioni sulla ‘incongruenza’ di genere, citata con il più noto termine di ‘disforia‘, e dopo aver osservato insieme ad altre/i attiviste/i ciò che stava succedendo e che, di fatto, è accaduto, forse è arrivato il momento di mettere i puntini sulle i, ma anche le virgole, i punti e tutto ciò che ci serve per narrarci.
Già da tempo, in verità, le testate di riviste e quotidiani, ma anche trasmissioni televisive si sono “interessate” alle persone trans, ma molto di rado sono andate oltre il loro desiderio morboso e voyeristico.
Quando è stata l’ultima volta che una persona trans, a parte la sola eccezione di Vladimir Luxuria, ha potuto parlare sui media di un qualsiasi argomento di attualità, cultura e poltica, senza focalizzarsi sulla identità di genere della persona intervistata? È in realtà un evento talmente raro, da non averne memoria io stessa. Se poi la domanda fosse formulata, sostituendo l’espressione ‘persona trans’, con ‘attivista trans’, la risposta sarebbe un laconico mai.
Perché alle attiviste e agli attivisti trans viene impedito di prendere la parola? Di cosa si ha paura? Quello che sembra chiaro è che si abbia paura proprio di noi, delle nostre idee e della nostra presa di parola. Questa paura ha solo un nome: transfobia. Che sia sociale, istituzionalizzata o mediatica, non fa differenza: il suo obiettivo è quello di schiacciarci nell’invisibilità in modo da comunicare, diffondere ed esporre al pubblico ludibrio solo le immagini stereotipate che i media decidono di dare di noi: le sex worker (con il massimo rispetto per chi rischia la violenza maschile tutti i giorni), le persone “bisognose di cura” e le vittime di transfemminicidi.
Questi sono parte degli stereotipi con i quali le persone trans si misurano tutti i giorni, nella quasi generale indifferenza. Ormai, bullizzate e relegate al ruolo di vittime, designate e “destinate”, non finiamo di stupirci davanti alla superficialità dei pregiudizi di persone ritenute intellettuali, che dalle pagine di giornali nazionali dissertano sulla nostra vita, senza un minimo di empatia, come se si stesse parlando di oggetti e non di esseri umani.
E come se non bastasse tali brutalità vengono espresse anche da “esperti della psiche”, dai cui ragionamenti, non di rado contorti, si evince la scarsa conoscenza delle persone trans e dei loro vissuti. D’altra parte, si spera anche che sia così, perché in caso contrario, da tale conoscenza, avrebbero veramente appreso poco.
Come scriveva lo psicologo americano Marshall Rosenberg, ideatore della comunicazione non violenta, «le parole sono finestre (oppure muri)». Beh, io di muri ne ho visti tanti nelle parole di questi psicoanalisti ed è molto difficile usare parole-finestre, per evitare il muro contro muro. La medicina, prima, anche attraverso la psichiatria, e la psicologia (e la psicoanalisi), poi, hanno relegato tutto ciò che si discostava da un “modello sano” di riferimento nel calderone del patologico, psichiatrico e psicopatologico.
Se nonostante il lungo percorso che ha portato alla lenta depatologizzazione dell’omosessualità, conclusasi il 17 maggio del 1990, ancora oggi assistiamo a discriminazioni e violenze contro le persone gay e lesbiche, va da sé che nonostante la recente decisione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) di rimuovere la disforia di genere dall’ICD11 (precisamente dalla parte riguardante i disturbi mentali), la strada,per il superamento dello stigma, che riguarda le persone trans, appare vertiginosamente e pericolosamente in salita.
L’apprezzabile tentativo delle attiviste trans, Monica Romano e Laura Caruso, di rispondere allo psicoanalista Sarantis Thanopulos, è stato in parte edulcorato dalla decisione della redazione de Il Manifesto, di non aggiungere alla lettera delle attiviste l’elenco delle/dei firmatari della stessa (compresi anche i tanti nominativi di persone non trans, tra cui giornalisti e politici, come, ad esempio, Pippo Civati) ma ancor peggio del farla seguire da un’immediata controrisposta dello stesso Thanopulos. Al di là del contenuto della replica dello psicoanalista, che di fatto riafferma quanto già detto, senza alcun valore aggiunto, quello che ferisce ancor di più è il messaggio implicito di questo agito, ossia il rivendicare il possesso dell’ultima parola.
Non solo ci siamo dovute/i subire dissertazioni paternaliste che attaccano frontalmente il principio dell’autodeterminazione delle persone trans e della rivendicazione della proprietà dei nostri corpi, ma abbiamo anche dovuto assistere al tentativo di squalificazione delle nostre istanze. Beh, visto che sembra che i titoli conseguiti valgano più dei vissuti, esimi colleghi, tenetevi forte, io sono tenuta a parlarne almeno quanto voi, pur con maggiore cognizione di causa, essendo una delle prime psicologhe transgender di questo Paese.
Ora, volete azzittire anche me? O posso dirlo che per una donna transgender è vergognoso che un giornale che si definisce comunista, fondato da Antonio Magri e Rossana Rossanda, permetta che una minoranza sia dileggiata da una maggioranza?
Per concludere, le uniche persone, autorizzate a parlare per le persone trans, sono le stesse persone trans. Ci riprenderemo la parola, anche senza il vostro cis ed etero patriarcale permesso.
Gramsci dovrebbe ricordare che «cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità della nostra mente di comprendere la vita. Il posto che vi teniamo gli altri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri. Cosicché essere colto, essere filosofo lo può chiunque».