«Una sentenza storica». Così l’avvocata Romina Sestini definisce il provvedimento 2233/19 del 4 marzo 2019, con cui il Tribunale per i minorenni di Roma ha riconosciuto «ad ogni effetto e con effetti di adozione piena le sentenze estere di adozione» di due minori, Achille e Dario, da parte di un solo genitore italiano, il 44enne Giona Tuccini, residente in Sudafrica.
«È la prima volta in Italia – spiega a Gaynews l’avvocata – che viene emesso un simile provvedimento: si tratta, infatti, di un papà single che ha adottato, a distanza di tre anni l’uno dall’altro, due bambini sudafricani, senza vincolo di sangue. Le motivazioni hanno ben argomentato l’accoglimento del ricorso, sottolineando, in particolare, la non contrarietà all’ordine pubblico e tenendo in primaria considerazione la condizione di vita dei due bambini, che stanno crescendo in un ambiente stimolante e gioioso».
Le due sentenze sudafricane riconosciute dal Tribunale per i Minorenni di Roma sono state rispettivamente emesse il 9 maggio 2012 e il 23 febbraio 2015 da due Corti differenti: quella riguardante Achille Esona (nato il 28 dicembre 2011) dal Tribunale per i Minori del distretto di Malmesbury, quella, invece, relativa a Dario Ermete (nato il 9 agosto 2014) dal Tribunale per i Minori del distretto di Bellville.
Il provvedimento romano ha riconosciuto pienamente le due sentenze di adozione sudafricane in nome dell’interesse superiore del minore, mostrando «l’aderenza di entrambe ai principi consacrati nella Convenzione dell’Aja del 1993 – commenta ancora l’avvocata Sestini –. La sentenza romana afferma in modo chiaro “l’adozione realizzata all’estero da un cittadino italiano come persona singola può e deve essere riconosciuta in Italia come adozione piena” se tale è l’efficacia dell’adozione nello stato in cui è stata pronunciata, non contraddicendo “alcun principio fondamentale” del diritto di famiglia e dei minori vigente in Italia ma essendo espressione di una differente valutazione della migliore opportunità per il minore in stato di abbandono».
Ma sull’importante provvedimento abbiamo voluto raccogliere anche le valutazioni di questo papà single, che, nativo di Fucecchio, vive dal 2010 a Città del Capo, presso la cui università è professore associato di Letteratura italiana e direttore della Sezione di Italianistica nell’ambito della Facoltà di Scienze umanistiche. Incarichi, che ha ottenuto dopo il superamento, nel maggio 2010, di specifico concorso internazionale. Ciò ha permesso a Giona Tuccini di ottenere prima la South African Permanent Residence (il corrispettivo della green card americana), quindi la naturalizzazione sudafricana.
Prof. Tuccini, la fama di studioso e ricercatore la precede. Ma com’è nato in un esperto di Savonarola e Pasolini il desiderio di genitorialità, pur essendo lei single e vivendo in Sudafrica?
In realtà, l’intenzione di diventare padre è antecedente il mio trasferimento in Sudafrica. Ma purtroppo in Italia non c’erano le premesse perché questo desiderio potesse realizzarsi. Non solo perché l’adozione monoparentale o da parte di coppie dello stesso sesso nel nostro Paese è giuridicamente impossibile, ma anche perché allora ero concentrato sulle traiettorie di una carriera impegnativa e complessa che ho poi consolidato all’altro polo. La decisione di accettare la cattedra all’Università di Città del Capo va dunque anche colta nell’ottica di un fermo desiderio di crearmi una famiglia. Ho scelto di trasferirmi qui alla luce delle conquiste della società sudafricana post-apartheid, orientata alla tutela dei diritti umani e alla cultura della differenza. L’Università di Cape Town, dove ho il privilegio di insegnare, è un’istituzione celebre anche per aver sollecitato il rinnovamento socio-culturale già incubato nel corpo policromo del Sudafrica, dove la discriminazione razziale, religiosa e di genere è combattuta non solo per direttissima nei tribunali, ma proprio sui banchi delle elementari. In Sudafrica l’iter adottivo prevede che un individuo che voglia diventare genitore per la prima volta debba svolgere un’esperienza di volontariato presso uno degli innumeri orfanotrofi del paese.
Che cosa ha significato per lei una tale esperienza?
Per me, che coltivavo da molti anni il desiderio di diventare padre, è stata un’avventura folgorante e molto istruttiva. Prima ancora di accogliere Achille, il mio primogenito, ho frequentato per mesi un orfanotrofio di Città del Capo dove mi sono cimentato nel cambio di pannolini, nel bagnetto, nel taglio delle unghie di una moltitudine di infanti, nella somministrazione di gocce nasali e oculari, nella preparazione di biberon e pappe e, soprattutto, nel riconoscimento delle distinte forme di pianto dovute alla noia, alla fame, alla solitudine e alla sofferenza; lezioni d’amore – queste – grazie alle quali ho capito che le esigenze di un bambino che si offre nel suo divenire e nel suo tenace attaccamento alla vita sono impagabili.
La sua vità è cambiata da quando è papà di Achille e Dario?
Radicalmente soprattutto per chi come me, immerso in una visione ascetica della vita umana, la patria è sempre stata altrove su questa terra. Ma ora i miei bambini sono la mia casa, il cuore caldo del giorno. Dall’adozione di Achille, fino all’arrivo di Dario, la relazione con il mio primogenito è stata la più importante che abbia mai conosciuto. Mi sono impegnato per essere un padre presente, orgoglioso e coinvolto nella crescita del mio bambino che è, a detta di tutti, felice, sano, aperto al mondo e ai suoi stimoli. Dopo qualche difficoltà, ho saputo creare intorno a lui un mondo regolato e divertente. La mia famiglia di origine, i miei amici lo hanno conosciuto ed amato da subito. E mi sono impegnato perché fosse così, non solo mandando foto, aggiornamenti, telefonando e scrivendo moltissimo, ma anche viaggiando regolarmente in Italia con lui, da quando aveva cinque mesi. L’apporto di una tata a tempo pieno, che vivesse con noi, selezionata con attenzione certosina, mi ha permesso una routine calda e rassicurante, mai monotona, che aveva al suo centro Achille, i suoi giochi e le sue necessità.
E questo non le bastava?
Convinto della mia pregressa scelta parentale, nell’agosto 2014 ho chiesto di poter accedere per la seconda volta alla procedura di adozione di un altro bambino, guidato dagli stessi princìpi affettivi che avevano motivato l’adozione di Achille. Ed è arrivato Dario che ho accolto con il massimo impegno, scegliendo prudentemente le persone entrate a far parte del nostro ambiente famigliare e dando vita ad una quotidianità tranquilla, resa completa dagli aiuti più appropriati alla crescita armoniosa dei miei due bambini. Con l’arrivo di Dario ho preferito da subito occuparmi personalmente di ogni aspetto che riguardava la cura del piccolo, attenendomi a regole semplici e sane, sorvegliandolo nell’alimentazione, rispettando gli orari del riposo pomeridiano e notturno, consentendo la giusta libertà nell’apprendimento e nel gioco, il che ha permesso a Dario di esprimere il suo temperamento vivace ed estroverso. Dedito a lui e al fratello maggiore con scrupolo e tenacia, ho trovato il modo di incastrare l’impegno universitario, gli interessi e i viaggi, perché non sottraessero tempo ai miei figli. Se è per stare con loro, non esco; non per spirito di sacrificio, ma perché sono il loro babbo e mi sta bene così. Ciò detto, essere insieme padre e madre non è una passeggiata nell’orto.
Ma per lei che cos’è la genitorialità?
La genitorialità consiste nel crescere la propria creatura fino in fondo, ad ogni costo, sul duplice piano materiale e immateriale, cercando di capirla intimamente nei suoi risvolti più sorprendenti. Accettazione e amore incondizionato servono da supporto in questa impresa straordinaria fortificata dal travaglio del pensiero che è fonte di autocritica, desiderio continuo di fare sempre di più e meglio per il proprio figlio, affinché – da adulto – sia libero: libero di scegliere come muoversi nel mondo, in base alla propria natura e al proprio bagaglio personale. Per questo sono convinto che la genitorialità non si esaurisca in quel sistema di regole e doveri che convenzionalmente informano il comportamento di un capo famiglia. Il ruolo genitoriale implica un dibattito incessante con se stessi: quello che faccio o quello che dico ha un cuore?
Prof. Tuccini, il Sudafrica ha abbatuto l’apartheid nel 1991 e nel 1996 è divenuto il 1° Paese al mondo a fornire protezione costituzionale alle persone Lgbti, riguardo alle quali ha successivamente adottato una legislatura tale da essere attualmente uno degli Stati più avanzati in materia di diritti umani e civili. Da padre gay, single e immigrato come valuta la situazione italiana?
Ammetto che fino a non troppo tempo fa avevo pensato di ristabilirmi in Italia, ma ragionandoci bene, con questi chiari di luna, non me la sento: fin troppo spesso, sulle testate nazionali, leggo fatti di cronaca a dir poco ripugnanti, di persone omosessuali, donne, uomini e bambini stranieri che vengono discriminati, offesi e in certi casi attaccati fisicamente. Dopo la sentenza emessa dal Tribunale dei Minori di Roma, in seguito al ricorso preparato dall’avvocata Romina Sestini, il problema che riguarda il mio nucleo familiare “bello variopinto” non è l’italianità o il rimpatrio, ma è un altro: l’accettazione del “diverso” e dello straniero nella nostra nazione. Fosse guidata da qualche barlume autocritico, certa gente starebbe quieta. E invece no. Abbiamo paura dell’alterità perché siamo degli ingrati. Troppo spesso dimentichiamo che gli italiani sono stati e continuano ad essere un popolo migrante. Prendete me, l’ennesimo studioso italiano all’estero. L’immigrazione che certi connazionali vorrebbero arrestare ha dato a tutti, loro compresi – giacché probabilmente avranno un avo o un congiunto oltralpe o oltreoceano – un luogo dove posare il capo. Lo straniero gli fa paura. Ci vedono il diavolo e se ne allontanano, come chi volesse ripararsi da un acquazzone. Ne hanno paura come i bigotti hanno paura dei gay. Per quanto ci riguarda, nel vostro Paese – nel mio Paese – la cultura della differenza e dell’accoglienza è un campo ancora tutto da arare, e dovremmo cominciare senza indugio dalle attività rivolte ai fanciulli dell’asilo. Quando medito con sgomento sulla condizione funesta in cui attualmente riversano i diritti dei diversi e l’approccio ai profughi in Italia – dove sono nato e dove potrei tornare con i miei figli – provo a farmi coraggio ripensando alla lezione di Anassimandro, il quale insegnava che tutto nasce e decade a cicli.