Volevo solo essere felice. L’omosessualità raccontata da un omosessuale, l’ultimo saggio di auto-aiuto pubblicato per Centauria dal life coach Alessandro Cozzolino, è un libro davvero insolito nel panorama editoriale del 2019. Attraverso un interessante ordito narrativo, fatto di testimonianze dirette e interpretazioni, Cozzolino analizza infatti un’ampia e ricorrente casistica relazionale e affettiva delle persone omosessuali.
Distinguendo il testo in tre capitoli, uno dedicato all’infanzia, uno all’adolescenza e un altro all’età adulta, l’autore esamina le lacerazioni familiari, parla di coloro che temono di non poter conciliare un differente orientamento sessuale e la fede, di chi ha fatto coming out – caso mai tardivo, in punto di morte – e di chi non ha il coraggio di farlo, di chi scopre il sesso come pulsione compulsiva, di chi lo reprime e di chi non riesce a liberarsi dalla dipendenza dal chemsex.
E così il saggio di Cozzolino, che prova a restituire al lettore dei consigli per conquistare benessere e felicità, scioglie nodi e problematiche che hanno a che vedere con il senso di esclusione, lo stigma sociale, i pregiudizi e l’omofobia interiorizzata, la solitudine e la paura.
Ogni sofferenza è però affrontata con lo sguardo rivolto al riscatto, all’emancipazione dei desideri, a un futuro migliore, alla realizzazione affettiva come ricerca e vocazione che presto sopraggiungerà.
Volevo solo essere felice è un saggio incentrato, soprattutto, sulla solitudine e le difficoltà che affronta un omosessuale nel nostro Paese. La sua esperienza di life coach le suggerisce forse che il nostro è ancora un Paese ostile alle persone Lgbti?
Siamo figli di un Paese che fatica ad abbandonare il pregiudizio. In molti sono ancora convinti che omosessualità sia sinonimo di devianza, malattia, abominio, vizio. Fino al 1990 (cioè ieri!) per la comunità scientifica e il mondo intero eravamo malati, depravati, pervertiti. Poi l’Oms ha depennato l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali e sono stati fatti progressi, ma scardinare idee e convinzioni omofobe non è né facile né veloce. Essere gay in molte zone d’Italia è ancora “pericoloso”, motivo di vergogna, frustrazione e paura. Tale disagio viene quotidianamente alimentato da eterosessuali o pseudo tali che non perdono occasione per deridere, schernire o peggio ancora bullizzare, offendere e insultare chiunque non sia o non abbia almeno l’aspetto etero. Sì, perché se sei o sembri etero allora sei “normale”, sei sano. Se invece sei gay, allora in te c’è qualcosa che non va. Quanti di noi, soprattutto da giovani, hanno creduto di essere sbagliati, di avere “qualcosa che non va”, solo perché attratti da persone del nostro stesso sesso? L’ostilità che sin da piccoli abbiamo respirato per via del nostro orientamento ha spinto tanti di noi a compiere scelte che andavano contro la nostra natura, facendo così il gioco di chi ci voleva “normali”, ovvero diversi da quello che siamo davvero. Molti di noi hanno talmente interiorizzato questa omofobia che persino all’interno della comunità Lgbt c’è chi insulta altre persone Lgbti e chi simpatizza per fazioni politiche tutt’altro che gay-friendly o progressiste.
In molte delle testimonianze che raccoglie e interpreta all’interno del libro, risulta centrale il tema del coming out. Per quale motivo — a suo parere — è importante farlo? Quali sono i benefici?
Se tutte le persone omosessuali facessero coming out, la società finalmente vedrebbe l’omosessualità per quella che è: una variante della natura umana, come avere gli occhi verdi o i capelli rossi. C’è chi ritiene che non sia necessario dichiarare esplicitamente di essere gay perché gli etero non lo fanno. Beh, non è vero. Le persone eterosessuali costantemente esibiscono la loro eterosessualità, sia verbalmente nei discorsi della loro quotidianità quando parlano di marito, moglie, figli, nipoti, sia silenziosamente quando si prendono per mano o si scambiano una coccola in pubblico. A mio avviso più che dirlo apertamente, l’importante è non nascondersi, non fingere, non negare la realtà dei fatti. Uscire allo scoperto e vivere se stessi alla luce del sole non solo ci alleggerisce da un peso che nel tempo rischia di diventare insostenibile, ma è anche di incoraggiamento per chi, in quanto omosessuale, si sente solo, escluso ed espulso da una società che ha bisogno di essere educata. Non uscire dall’armadio non fa altro che alimentare ulteriore omofobia. Se davvero vogliamo cambiare le cose, occorre che ciascuno faccia la sua parte, mettendoci la faccia e agendo in prima persona, per sé ma anche per gli altri. Personalmente mi sento grato ma allo stesso tempo in debito con chi, prima di me, ha combattuto affinché oggi noi, persone Lgbti, possiamo godere di quella manciata di diritti che abbiamo. Penso ai moti di Stonewall di cinquanta anni fa, penso a Sylvia Rivera, penso a chi ne ha subite sicuramente più di me, a chi ci ha rimesso la vita in nome della libertà e dei diritti di tutti, per tutti. Snobbare o sminuire il coming out, a mio avviso, è un’imperdonabile mancanza di rispetto non solo per se stessi, ma anche per chi c’è stato prima di noi e per chi verrà dopo di noi.
Il suo libro attraversa tre periodi della vita di ciascuno di noi: infanzia, adolescenza e maturità. Ci illustra, sinteticamente, quali sono le difficoltà che affronta un omosessuale in ciascuna di queste fasi? Che ruolo hanno, o dovrebbero avere, la famiglia, gli amici e la scuola nella piena accettazione di sé?
Quando a sei, otto, dodici anni iniziamo a sentire un’attrazione (fisica o emotiva, non fa differenza) nei confronti di persone del nostro stesso sesso, il mondo là fuori ci fa capire senza mezzi termini che non va bene. In famiglia, a scuola, gli altri sono quasi sempre i primi ad accorgersi della nostra omosessualità, quando in realtà noi non sappiamo ancora granché del sesso e della sessualità. Ciò che in noi nasce spontaneo e naturale viene visto dall’esterno come qualcosa di sbagliato. Riceviamo dunque sguardi di disapprovazione, parole di disappunto, magari anche qualche ceffone di rimprovero. E cosa fanno i bambini quando vengono rimproverati per un errore? Si vergognano. Peccato che lo sbaglio non stia in ciò che facciamo, ma in ciò che siamo. Questo ci fanno credere, e noi finiamo col credere di essere sbagliati sul serio. La vergogna quindi ci accompagna per tanti, tantissimi anni, lasciando in noi una ferita estremamente profonda, dolorosa e disastrosa: l’odio verso noi stessi.
Crescendo, una volta compreso che non c’è nulla di cui vergognarsi, si passa alla fase successiva, quella della rabbia. Dopo esserci vergognati del nostro orientamento sessuale, ad un certo punto esplodiamo: c’è chi lo grida ai quattro venti, chi se ne fa un vanto, chi sente di dover “recuperare” il tempo sprecato nell’armadio. Basta un niente (un battuta magari poco divertente, un’occhiataccia, un commento al vetriolo) per far esplodere la rabbia che in questa seconda fase impieghiamo quasi come strumento di vendetta. Ma si tratta solo di un meccanismo di difesa, perché troppo a lungo ci siamo sentiti ingiustamente indifesi e in difetto. La nostra adolescenza non è stata come quella dei ragazzi eterosessuali. Molti di noi, a quindici anni, una vera adolescenza non l’hanno vissuta perché, crescendo in un ambiente omofobo, non è stato possibile. Ecco perché non sono pochi i gay che, pur avendo abbondantemente superato gli “anta”, vivono, ragionano, si comportano e si innamorano come quindicenni irrequieti.
Soltanto in una terza fase, che non è detto arrivi per tutti, si raggiunge un equilibrio che ci permette di essere persone gay e felici, serene e appagate, in pace con noi stessi e con gli altri. Chi arriva in questa terza fase ha compreso — a proprie spese — che avere la tartaruga addominale non significa essere felici, che piacere agli altri non serve a niente se dentro viviamo l’inferno, che per trovare l’amore non sono necessarie app, saune o discoteche, ma occorre inevitabilmente imparare prima ad amare se stessi. Ma come arrivi ad amare chi ti hanno insegnato a odiare? Ci arrivi diventando genitore di te stesso. E allora inizi a chiederti: sarei felice di sapere che mio figlio fa uso di sostanze, fa sesso con chiunque, non si protegge e gioca con il fuoco fino ad autodistruggersi?
È vero che a molti di noi, famiglia, scuola e amici non hanno fornito quell’amore e quell’affetto così essenziali che ci servivano durante la preadolescenza e l’adolescenza. È vero che molti di noi hanno vissuto con addosso una sorta di camicia di forza nei periodi più cruciali della nostra esistenza. È anche vero che il nostro sviluppo psicoemotivo è stato ostacolato e danneggiato in più modi. Ma è altrettanto vero che sta a noi fare qualcosa di concreto per rimediare ai danni subiti e diventare persone adulte, quindi mature, non solo in termini anagrafici. Abbiamo imparato a sopravvivere a una vita ingiusta e lo abbiamo imparato da soli. Con l’aiuto di un valido professionista possiamo però imparare a vivere, e non solo ad esistere.
Infine, un tema scottante affrontato nel libro è quello dell’alto numero di persone omosessuali dipendenti da droghe. Come spiega il fenomeno alla luce della sua esperienza professionale?
Secondo diverse ricerche e statistiche, il consumo di sostanze stupefacenti da parte delle persone omosessuali sarebbe più del doppio rispetto a quello degli eterosessuali, ma non solo. La propensione al suicidio tra gli individui gay è tre volte superiore rispetto a quelli etero. E ancora, i bambini che non si identificano come eterosessuali tendenzialmente iniziano a soffrire di depressione a partire dai dieci anni di età. Questi dati sono solo la prova del fatto che l’omofobia danneggia gravemente il nostro sviluppo psicoemotivo, portandoci a odiare chi siamo e a fare di tutto per sedare quella costante sensazione di inadeguatezza che proviamo troppo presto, troppo a lungo nel corso della nostra esistenza, o forse sarebbe meglio dire sopravvivenza. Se nasci, cresci e vivi in un ambiente (familiare, scolastico, religioso, …) che ti ripete senza sosta che sei sbagliato, sporco, contro natura, allora le dipendenze diventano la scorciatoia per “mettere in pausa” quel malessere interiore che ti accompagna pressoché da sempre. Se ne parla poco, anche all’interno della comunità Lgbt, ma il fenomeno è molto più serio e drammatico di quanto si pensi. Un numero altissimo di persone omosessuali soffre di attacchi di panico, ansia, depressione, disturbi alimentari, dipendenza da sesso e da sostanze, e dal sesso con sostanze. Ci viene quasi istintivo buttarci — in tutti i sensi — tra le braccia o nel letto del primo che capita, per sentirci meno soli o comunque meno peggio. Proviamo a saziare con sconosciuti la nostra fame di contatto umano, amore e considerazione, ma dopo poco stiamo peggio di prima. Ci facciamo del male provando a farci del bene. Eppure, l’abuso di alcol e droghe, il sesso non protetto, gli irresponsabili comportamenti adolescenziali, per quanto “divertenti” possano sembrare, altro non sono che l’espressione del sentimento che proviamo nei nostri stessi confronti. Alla base di tutto questo il più delle volte si cela un enorme, profondo disprezzo per la persona che siamo. A pensarci bene, ci avevano avvertiti: le persone gay non hanno vita facile e non fanno una bella fine, si ammalano, muoiono presto e in solitudine. È la profezia che si autoavvera, in un certo senso. E in effetti è così, come scrivo nella quarta di copertina del mio libro: di omosessualità ci si ammala. La malattia non è il nostro orientamento sessuale ma ciò che ancora troppa gente pensa di noi.