La legge Cirinnà ha innegabilmente segnato un punto di svolta nell’ordinamento italiano, disciplinando chiaramente l’unione fra persone dello stesso, come tematica a sé stante, senza porre sullo stesso piano convenze more uxorio, convivenze di fatto fra persone non legate da vincoli sentimentali, come proposto, invece, da precedenti progetti di legge. Le unioni civili introducono nell’ordinamento un nuovo istituto che discplina l’unione fra persone dello stesso sesso, legate da un vicolo affettivo, “quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione”, costituita mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni.
Ciò non toglie che la legge presenti alcune “lacune”, in parte, colmate dai decreti attuativi (si pensi alla disciplina penalistica ove lo status di “unito civilmente” è equiparato a quello di “coniuge”, anche ai fini dell’applicazione di circostanze aggravanti del reato), in parte, invece, rimasta irrisolta.
Il legislatore, al fine di tentare una equiparazione, introduce una sorta di “clausola di salvaguardia” all’art. 1, comma 20: “Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonche’ negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonche’ alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti“.
Il legislatore, in sostanza, sulle adozioni non prende una posizione chiara. Da un lato, esclude espressamente il richiamo alla legge sull’adozione, dall’altro, però, con una clausola di apertura prevede che “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. A mio avviso, non può negarsi che, con tale previsione, il legislatore abbia, nei fatti, abdicato alla propria funzione normativa (e di indirizzo politico) in favore della giurisprudenza, con ciò agevolando la prassi di una “giurisprudenza creativa”, che presta il fianco ad una innegabile disparità di trattamento.
In più di una pronuncia, infatti, la giurisprudenza di merito, pur nell’assenza di una disciplina legislativa, ha riconosciuto, di fatto, la possibilità di adottare il figlio biologico del proprio partner, all’interno d una coppia omosessuale, talvolta ricorrendo all’ipotesi di adozione in casi particolari ex art. 44 l.184/83, ovvero come riconoscimento di adozione pronunciata in un paese straniero ex art. 36, comma 4, l. 184/83.
Nelle numerose sentenze i giudici hanno proposto unaserie di argomenti giuridici tali da consentire l’applicabilità in via analogica della normativa prevista per ipotesi “speciali” di adozione. Ciò nel superiore interesse del minore. Va evidenziato, infatti, che la giurisprudenza di merito si sia soffermata esclusivamente sul diritto del minore ad uno stato giuridico di figlio corrispondente ad una situazione di fatto creatasi all’interno di un nucleo familiare omogenitoriale fondato sugli affetti, sull’assistenza materiale e sulla cura del minore, non sussistendo, di contro, nel nostro ordinamento, il diritto della coppia omosessuale alla genitorialità. Tale operazione ermeneutica della giurisprudenza si rivela necessaria, laddove esistono già in Italia coppie omossessuali che hanno figli, la cui condizione giuridica è priva di regolamentazione.
Tuttavia, il fatto che sia demandata alla “sensibilità” di ciascun giudice la facoltà di riconoscere, o meno, al soggetto unito civilmente l’adozione del figlio biologico del partner evidenzia, indubbiamente la necessità di colmare tale lacuna normativa, non potendosi consentire tale disparità di trattamento sul territorio nazionale, tanto più ove, come in questi casi, sia in gioco l’interesse del minore. In particolare, val la pena di precisare che nell’ipotesi di minore convivente con due soggetti uniti civilmente, o comunque cosituenti una coppia omossessuale, (perchè figlio biologico di uno dei due) in caso di disgregazione del nucleo, questi non avrebbe diritto di essere ascoltato, non sussistendo, allo stato attuale, una riconoscimento giuridico del figlio di una coppia omogenitoriale.
Non può non sottolinearsi come, anche tale circostanza, palesi una intollerabile disparità di trattamento tra figli coppie eterosessuali ed omosessuali, laddove i primi hanno diritto ad essere ascoltati in tutti i procedimenti che li riguardano, ai sensi dell’art. 336 bis c.c., mentre i secondi, il cui status giuridico non viene riconosciuto dall’ordinamento ( se non in forza di alcune isolate pronunce giurisdizionali) non hanno tale diritto.
Se è vero, infatti, che in caso di coppia omosessuale non vi è un diritto per il “genitore sociale” (partner del genitore biologico) alla genitorialità, che viene quindi, nella maggior parte dei casi, di fatto esercitata senza una “copertura” legislativa, è altrettanto vero che l’ordinamento non può non porsi il problema di come gestire tali situazioni in caso di disgregazione del nucleo familiare formato dalla coppia omogenitoriale.
In particolare, tale tematica investe in primis il diritto del minore “a vivere e crescere nella propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori”, diritto che deve essere garantito anche ai figli di una coppia omogenitoriale e che viene esercitato concretamente anche tramite l’ascolto del minore stesso, ascolto imprescindibile ed obbligatorio ex lege al fine di tutelarne il superiore interesse.