Da mesi ormai il mondo lesbico femminista italiano è attraversato da un conflitto che ha ridefinito i confini del movimento Lgbti+ e che ha generato un nuovo arcipelago di associazioni femminili e femministe. La radicalizzazione, in chiave neoreazionaria, di ArciLesbica ha determinato la nascita di Alfi (Associazione Lesbica Femminista Italiane) che mette in rete tutti quei circoli che si sono autosospesi e si sono dissociati da ArciLesbica. E che a Bologna invece ha trovato concretezza in Lesbiche Bologna, legittime eredi della fu Arcilesbica Bologna e altrettanto legittime assegnatarie della sede del Cassero.
Nell’arcipelago lesbico italiano però qualcuno si dimentica sempre di noi, donne lesbiche, bisex, pamsex, transex, intersex, asex, queer, che militiamo in Arcigay o in altre associazioni Lgbti+ e che, non per questo, ci sentiamo meno lesbiche, meno femministe, meno donne, meno emancipate. Eppure agli occhi dei più noi non esistiamo.
Non importa se siamo presidenti di circoli territoriali. Non importa se lo siamo anche in città grandi e attive come Torino per citarne un, o se lo siamo state (fino ad alcuni mesi fa) in territori ostici come Salerno tanto per citarne un’altra. Non importa se siamo brave. Non importa se facciamo parte dei gruppi dirigenti delle nostre associazioni e se siamo parte attiva di un’elaborazione politica che fa dell’acronimo Lgbti+ non un insieme di consonanti, ma un insieme di persone, che lottano per decostruire quegli stereotipi di genere che affliggono la nostra società e di cui ognuno di noi è vittima inconsapevole.
Noi, che ci sporchiamo le mani per ridefinire i confini di genere perché crediamo profondamente nell’autodeterminazione di qualsiasi individuo, non esistiamo. E, quando qualcuna di quelle compagne lesbiche, femministe si ricorda di noi, è per sbeffeggiarci. Noi che “gigioneggiamo con gli uomini” (come disse Cristina Gramolini a Ferrara il 1 dicembre 2018), che siamo le mogli dei gay, complici del loro innato, radicato e insradicabile maschilismo.
Talmente tanto dimenticate o non considerate che, ogni volta che una lesbica femminista muove un’accusa ad Arcigay o ad altra associazione Lgbti+, lo fa rivolgendosi sempre al maschile e sempre e comunque solo ai maschi, ai G di quell’acronimo. Noi donne Lgbti+, militanti di associazioni Lgbti+, non contiamo nulla. Ma non per i nostri compagni di lotte, dai quali abbiamo continue dimostrazioni di stima e rispetto, ma proprio per quelle donne che lottano per la parità e fanno della differenza un plusvalore.
E cosi ancora una volta mi tocca leggere frasi del tipo: La mia solidarietà ad #Arcilesbica che rappresenta la storia del movimento #Lgbt italiano e a cui tutte noi donne #lesbiche dobbiamo essere grate. Il movimento omosessuale italiano dovrebbe riflettere. Non si fa politica così. (Paola Concia, profilo Fb, 14 maggio 2018)
Ecco cara Paola, di cui non ricordo una lunga militanza nel movimento (ma forse sono io ad avere la memoria corta), e care compagne lesbiche femministe, fatevene una ragione! Il “movimento omosessuale” non è fatto di soli uomini. Le decisioni non le prendono solo gli uomini, gli indirizzi politici non sono il frutto di elaborazioni maschili e maschiliste. Il movimento che voi chiamate omosessuale è il movimento Lgbti+ italiano, fatto di persone che la pensano diversamente da voi, fatto di tante donne (cis, trans, queer, gender fluid) che lottano per l’autodeterminazione della donna anche quando questa passa dalla libera scelta di gestare per altri (perché l’utero è mio e me lo gestisco io, non voi).
Donne che si sentono diverse, ma uguali alle compagne trans perché non è quello che abbiamo tra le gambe che fa la differenza ma quello che siamo, quello che sappiamo di essere sin da piccole.
Siamo donne che rivendicano con orgoglio la libertà di fare del sesso un mestiere, senza per questo sentirsi vittime di un sistema patriarcale, ma semplicemente libere di determinare cosa fare del proprio corpo e della propria vagina. Donne che lottano perché le persone disabili tutte, di qualsiasi genere siano, debbano avere il diritto a una sessualità. Donne il cui utero non è un tempio sacro, per cui la genitorialità non passa esclusivamente dalla maternità. Donne libere dai quei meccanismi patriarcali di cui voi siete vittime. Perché il patriarcato è una pratica che voi applicate ogni qualvolta vi erigete a paladine della tutela delle altre donne.
Non ho mai avuto bisogno di essere tutelata da nessuno, uomo o donna che sia: io mi tutelo da sola ed esisto in quanto donna lesbica e femminista, che vi piaccia o no, anche se sono la presidente di un circolo il cui suffisso è gay. E sono favolosa!