Chi ha vinto e chi ha perso le elezioni di midterm negli Usa?
È incontrovertibile il successo del Partito Democratico alla Camera dei Rappresentanti con un margine molto forte (senza dimenticare, inoltre, che le schede dovranno essere riconteggiate in Florida e dovrà terminare lo spoglio in Arizona così da poter arrivare a ben 35 seggi rispetto ai 30 sicuri di maggioranza) e per di più con una serie di esponenti dell’ala radicale, femminista, Lgbti, antirazzista e socialista (che negli Usa è bestemmia politica) come mai era successo prima. Altro che semplice increspatura blu, come aveva liquidato, in un primo tempo, i risultati degli avversari Donald Trump.
Anche il voto al Senato è significativo, perché i dem hanno preso 10 milioni di voti in più rispetto ai repubblicani anche se ciò non si è tradotto in un numero più ampio di seggi sulla base della ripartizione degli stessi che ha favorito l’area repubblicana.
C’era chi sperava in un colpo mortale al presidente Trump. Tutti noi lo speravamo. Ma è sbagliato pensare che le ragioni per cui Trump ha vinto le elezioni presidenziali, due anni fa, siano improvvisamente venute meno.
Nel mondo occidentale c’è un ciclo sovranista e populista che è arrivato al suo apice e che preme per ulteriori successi. Si pensi, ad esempio, alle prossime elezioni europee, alle quali il gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) e quanti a esso s’ispirano (come Austria e nazionalisti nostrani) vorrebbero vincere su larga scala: vincere per governare un’Europa delle singole nazioni, chiudere tutti i confini, stringere così in una morsa autoritaria e bigotta Paesi laici e di lunga tradizione democratica come quelli dell’Occidente europeo.
Io sono tra coloro che gioiscono per la vittoria degli anti-Trump negli Usa. Intanto perché alla Camera (che gestisce i cordoni della borsa del bilancio Usa e può decidere la messa in stato d’accusa del presidente in carica) non passerà più uno spillo che non sia concordato con la nuova maggioranza. Maggioranza – ed è qui è la novità vera – composta da un mosaico di persone tra le più diverse, a partire dalla 29enne lesbica nativa Sharice Davidson per finire al senatore Zach Walhs, figlio di due donne dello Iowa.
Conosciamo tutti la polemica persino sul termine omogenitorialità, sui figli delle coppie Lgbti: fenomeno relativamente recente sia sul piano dei numeri sia su quello politico-culturale. Ma che un giovane (etero), figlio di due lesbiche e militante sul fronte omogenitoriale, sia eletto con la maggioranza del voto popolare rappresenta, a mio parere, un’autentica rivoluzione politico-istituzionale. Tale da consentirci di chiudere la bocca ai reazionari vecchi e nuovi che sbraitano contro i figli delle persone Lgbti.
L’altra foto simbolo di queste tornata è l’elezione del governatore del Colorado Jared Polis, la cui immagine simbolo è quella che lo vede ripreso (qualche anno fa) con il marito e i due figli alla Casa Bianca con Obama. Imprenditore e filantropo, Polis è stato eletto con la maggioranza del voto popolare (51,1%). Per non parlare del referendum in Massachusetts, che ha respinto la richiesta di cancellare le norme antidiscriminatorie verso le persone trans.
Quindi, non solo Trump e i repubblicani hanno perso la Camera, ma a vincere è stata l’ala più nettamente di sinistra, radicale e inclusiva del Partito Democratico. È la qualità della vittoria a Capitol Hill che ci rende un po’ più tranquilli e un po’ più sereni, per non dire ottimisti, sul futuro delle elezioni Usa, sull’inizio del declino del sovranismo omofobo, sulla percezione che la maggioranza della popolazione ha della collettività Lgbti e dei suoi diritti.
Prova ne è anche il sondaggio – di cui Gaynews ha dato notizia – sui temi dei diritti civili in Brasile all’antivigilia della malaugurata elezione del militarista Bolsonaro a presidente del più popoloso Stato dell’america latina. Da questa rilevazione dell’Istituto di ricerca Datafolha risulta che ben il 74% della popolazione brasiliana è contraria a ridurre i diritti della collettività Lgbti. Ciò significa che la società è profondamente cambiata sia culturalmente sia socialmente, incorporando i diritti delle persone Lgbti come diritti irrinunciabili rispetto ai quali non si ritorna indietro.
L’elezione di rappresentanti Lgbti (ben nove) e gay-friendly al Congresso negli Usa è per me un fatto di grande rilievo, perché indica una positiva inversione di tendenza e perché persone decise e motivate possono fare grandi cose in un Parlamento democratico. Ma anche perché tutto ciò serve anche a noi, nella nostra piccola Italia, per far capire a governanti e opposizione che non si tratta più di sparute minoranze ma di rappresentani politici e istituzionali, che parlano a tutta la nazione.
Infine una vittoria così massiccia dei dem alla Camera smentisce il penoso dibattito italiano sulla sinistra nostrana, che avrebbe perso le elezioni per essersi occupata troppo di diritti civili e poco di quelli sociali. Al contrario il rinnovamento della rappresentanza parlamentare e la messa in mora di molti scialbi candidati centristi ha permesso ai dem di tornare a fare il pieno dei voti di “sinistra”.
Spero pertanto che qui da noi finalmente qualcuno cominci a sentirci da quest’orecchio: le elezioni si vincono con più radicalità e dando rappresentanza alle minoranze che, negli Usa, sono così tante da fare maggioranza da sole.
Per i militanti Lgbti italiani quella Usa non è quindi una “mezza vittoria” ma una vittoria a tutto campo.
Nel prossimo anno si celebreranno il 40° anniversario del martirio di Harvey Milk e il 50° anniversario dei moti di Stonewall: la società americana non poteva prepararsi a questi avvenimenti in modo migliore.
Ma sono celebrazioni che vanno al di là dei confini statunitensi. Come noto, lo Stonewall Inn Bar, da cui partirono i moti del 28 giugno 1969, è stato dichiarato dell’allora presidente Obama National Monument a memoria perenne della rivolta contro i soprusi alla collettività e alle persone Lgbti. Ma potrebbe essere definito International Monument, perché esso resta un simbolo ben al di là dei confini statunitensi.
Vita, cultura, storia di una collettività si fanno anche, a volte soprattutto, con i simboli e la memoria collettiva della propria storia. Memoria, di cui non possiamo che andare fieri, anche qui in Italia come in altre parti del mondo, perché alla fine riguarda tutte e tutti.