Shams ha annunciato che il Governo tunisino ha fatto appello contro la decisione del Tribunale di Tunisi del 23 febbraio 2016 che ne autorizzava l’attività. I responsabili dell’associazione sono stati convocatti davanti ai giudici il 1° marzo.
L’organismo, finalizzato all’ottenimento della depenalizzazione dell’omosessualità in Tunisia, violerebbe, secondo il Segretario generale del Governo che presentò il ricorso nel 2016, la legge sulle associazioni e «i valori islamici della società tunisina, che rigetta l’omosessualità e ne proibisce un tale comportamento estraneo». Ma non avendo, all’epoca, la Corte riscontrato alcuna infrazione, l’iniziale sospensione di 30 giorni fu revocata.
L’appello, presentato il 20 febbraio scorso dall’incaricato di Stato per i contenziosi, muove dal presupposto che, proibendo la legge tunisina l’omosessualità sulla base dell’articolo 230 del Codice penale del 1913 (che, largamente modificato nel ’64, commina fino a tre anni di reclusione per atti privati di sodomia tra adulti consenzienti), proibirebbe dunque anche l’attività di associazioni in difesa di «tali pratiche».
A difesa di Shams si è schierata Human Rights Watch, annunciando che «il Governo tunisino dovrebbe fermare il suo tentativo di ricorrere contro una sentenza della Corte, che conferisce a un’associazione Lgbt il diritto di operare».
Amna Guellali, direttrice del bureau dell’ong a Tunisi, ha dichiarato: «Se le associazioni che difendono i diritti umani e le minoranze sessuali vengono sciolte o messe a tacere, l’immagine della Tunisia come santuario di libertà e democrazia nell’area nordafricana subirà un grave contraccolpo».